In Usa studiano il Food come Soft Power per fermare le guerre con una cena. La Casa Bianca già lo usa. Così sono nate le Nazioni Unite

La nascita delle Nazioni Unite? Si deve a una cena. Anzi, a quanto dice la storia, a tante cene. E’ il 1815 quando per la prima volta gli stati europei decisero che il modo giusto di mettere fine a una guerra fosse riunire tutti gli stati interessati e discutere una soluzione valida per tutti.

Fu con il Congresso di Vienna che l’idea che i grandi conflitti e le questioni internazionali andassero risolte da riunioni a cui partecipavano tutte le nazioni coinvolte entrò nella cultura della diplomazia europea. Un secolo dopo, questa idea avrebbe assunto la forma della Società delle Nazioni e, a meno di 150 anni dalla chiusura del Congresso, avrebbe portato alla nascita delle Nazioni Unite.

I lavori del Congresso – insegna la storia – furono continuamente inframezzati da feste, cene, balli e ricevimenti tenuti dalla corte austriaca, dai nobili viennesi oppure dalle numerose delegazioni convenute. La continua atmosfera di festa fece coniare al principe Charles Joseph de Ligne la famosa immagine del “Congresso danzante”.

E l’entrata del Portogallo alla Cee? La firma del 12 giugno 1985 fu segnata dal pranzo che Soares offri a tutti i firmatari a Lisbona. Senza contare le cene diplomatiche che accompagnano i G7, i vertici tra i paesi e gli incontri bilaterali dove si decide dove andrà il mondo negli anni a venire.

Ed era sempre con una cena che nel 1967 Stanley Kramer affrontava – con l’aiuto di Spencer Tracy, Sidney Poitier e Katharine Hepburn – il delicato tema dell’integrazione razziale degli Stati Uniti della fine degli anni Sessanta. Il film era “Indovina chi viene a Cena”. Appena dieci anni prima Rosa Parks fu arrestata per non aver ceduto il posto in autobus a un bianco.

Infine sempre con una cena viene segnato uno dei momenti storici apicali del cristianesimo: l’Ultima Cena rappresenta l’atto di condivisione del pane e del vino da parte di Gesù con i suoi discepoli. Atto che simbolizza l’unione tra Cristo e i suoi seguaci, che diventano un corpo unico attraverso la partecipazione all‘Eucaristia.

Ma che la pace si possa fare a tavola, oltre che dalla Storia, dal Cinema, e dalla Religione, è dimostrato anche dalla Scienza. E alla Casa Bianca lo sanno bene. 

Johanna Mendelson-Forman insegna all’American University di Washington come il cibo sia un “soft power”, un potere leggero, senza l’utilizzo della forza, ma al tempo stesso capace di fare la differenza nei momenti di maggiore tensione.

Professore aggiunto presso la School of International Service dell’American University e Distinguished Fellow presso lo Stimson Center, dove dirige il Programma di sicurezza alimentare, Mendelson Forman mette la sua esperienza in prima linea come policy maker per i conflitti e gli sforzi di stabilizzazione per collegare il ruolo del cibo nei conflitti, portando alla creazione di Conflict Cuisine®: An Introduction to War and Peace Around the Dinner Table, un corso interdisciplinare che insegna alla School of International Service dell’American University di Washington.

I suoi studenti sono portati ad esplorare nuovi modi di guardare alla diplomazia, alla risoluzione dei conflitti e all’impegno civico per capire come il cibo, in quanto forma di Soft Power, possa guidare questi temi nel XXI secolo. Stabilendo questo legame tra cibo e conflitto, Johanna ha sviluppato una nuova piattaforma interdisciplinare che esamina il motivo per cui il cibo è fondamentale per la sopravvivenza e la resilienza nelle zone di conflitto.

“Perché – aveva spiegato la docente dell’Università di Washington nel corso dell’Expo 2015 di Milano – non c’è gesto più intimamente umano dello spezzare un pezzo di pane insieme”. La “cucina del conflitto” che Mendelson-Forman ha creato nell’ateneo della capitale della Politica statunitense, ha avuto un tale successo che alla Casa Bianca opera stabilmente un staff di chefs il cui compito è mettere a loro agio, dal punto di vista culinario, i leader mondiali in visita al presidente degli Stati Uniti.

Mendelson aveva poi ricordato a Milano alcuni episodi su come il ‘food power’ avesse contribuito spesso nel far trovare la quadra tra i Paesi nelle diatribe della politica internazionale. Come nel caso degli interminabili colloqui tra i paesi del cosiddetto ‘5+1’ (i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con potere di veto Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e l’Iran sul nucleare.

Dopo 20 mesi di trattative in cui i diplomatici coinvolti mai avevano pranzato insieme, avrebbero avuto un’improvvisa accelerazione – aveva spiegato – fino ad arrivare all’accordo del 14 luglio, il giorno dell’Independence Day, quando, per festeggiare il 4 luglio, il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif invitò il segretario di stato John Kerry e il suo staff per un pranzo a base di cibo persiano. “È stato dieci volte meglio di quello che abbiamo mangiato finora”, avrebbe dichiarato un collaboratore di Kerry. E da quel momento la strada dell’accordo sarebbe stata in discesa.