Il sest’ultimo paese dell’Unione Europea per superficie – 37378 kmq -, ma il settimo per popolazione con oltre 17milioni di abitanti. Eppure l’Olanda è il secondo esportatore mondiale nel settore agroalimentare e decide in maniera determinante sulle politiche europee legate alla produzione interna, che negli ultimi anni ha puntato senza mezzi termini all’obiettivo di produrre fuori dai confini del continente e quindi alla globalizzazione alimentare.
Le conseguenze delle recenti politiche europee hanno fatto emergere i limiti di scelte che hanno arricchito un paese a danno degli altri membri del club europeo e le crisi degli ultimi anni – sincrone e asincrone, come amava ripetere l’ex ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli – ne hanno messo a nudo tutte le debolezze.
Pandemia, guerra Ucraina-Russia, crisi di Suez e tensioni medio-orientali hanno scardinato la visione – ottimistica – di una Europa che poteva permettersi di non produrre, di demandare ad altri questo compito, tanto da arrivare a pagare gli agricoltori per smettere di coltivare o di mettere a riposo obbligatorio terreni che invece potevano e dovevano essere utilizzati.
In tutto questo il ruolo dell’Olanda e dell’ex commissario all’ambiente Frans Timmermans è decisivo: il Green Deal e il Farm to Fork (o addirittura il Fork to Farm), presentati come piani ambiziosi per rendere l’Europa sostenibile dal punto di vista ambientale, hanno avuto ricadute negative che si stanno pagando a caro prezzo, diventando una sottilissima foglia di fico.
L’aumento del costo dei trasporti mondiale, il balzo inflattivo e l’utilizzo delle produzioni strategiche di alimenti base (grano, frumento, mais, fertilizzanti) come strumento geopolitico, hanno mostrato la necessità di una politica di sovranità alimentare europea. Al pari di quanto già si sta facendo da anni negli USA, in Russia, in Cina e nei Paesi Arabi.
Oggi, a meno di un mese dalle nuove elezioni europee, si sta correndo ai ripari, modificando in corsa la nuova Pac, ma gli effetti potrebbero arrivare solo tra alcuni anni e intanto l’Europa deve prepararsi ad essere pedina passiva nello scacchiere alimentare mondiale, dopo essere già stata strattonata su questioni che, alla luce di questo quadro, non sono affatto teoriche: parliamo di carne coltivata, in mano alle grandi multinazionali, ma anche dell’utilizzo di fitofarmaci in agricoltura e delle resistente ideologiche sulle Tea, tecniche di evoluzione assistita.
Chi si avvantaggia in tutto questo? La piccola ma “frugale” Olanda che fa da sempre, indisturbata, dumping fiscale, capace di essere il secondo esportatore mondiale di prodotti agricoli pur producendo meno degli altri big europei, Italia compresa, come l’attuale ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida ha sottolineato durante un intervento nell’ultima edizione di Cibus a Parma.
Tutto questo è possibile grazie a quello che in economia è conosciuto come “Effetto Rotterdam”: la competitività non di prezzo. I Paesi Bassi si posizionano tra i primi 10 di molte classifiche, come il WEF Global Competitiveness Index, il Global Enabling Trade Index e il Logistics Performance Index. La posizione geografica favorevole e una buona infrastruttura fanno dei Paesi Bassi una delle principali porte d’accesso all’Europa.
Molti Paesi vicini commerciano le loro merci attraverso i porti olandesi. Se una società olandese possiede temporaneamente tali beni, la “riesportazione” di questo bene è parte integrante del bilancio commerciale olandese. Mentre il valore aggiunto di queste esportazioni è molto basso, poiché il prodotto subisce generalmente solo variazioni marginali (ad es. reimballaggio), il volume di tali riesportazioni ha un impatto notevole sulle statistiche del commercio.